Prefazione a Antonio De Luca «Il teatro di Ludovico Ariosto» (1981)

Walter Binni, prefazione a Antonio De Luca, Il teatro di Ludovico Ariosto, Roma, Bulzoni, 1981, pp. 7-10.

prefazione

Questo volume, che esce purtroppo postumo e le cui ultime bozze sono state riviste da alcuni amici di De Luca (Enrico Ghidetti, Isabella Gherarducci e Nicola Longo), appare anzitutto sicuramente impostato metodologicamente nella salda prospettiva dello studio storico-critico e di «poetica», sviluppata entro un’iniziale e ben documentata ricerca di ambientazione e giustificazione socioculturale della poetica teatrale ariostesca in rapporto alle condizioni della corte estense e della tradizione e vita ferrarese e al tentativo di rifondazione teatrale che già si era manifestato nella corte di Ercole I con la ripresa di sacre rappresentazioni, con le nuove traduzioni e rappresentazioni di testi di Plauto e Terenzio, in una duplice via di restauro del carattere liturgico delle sacre rappresentazioni liberate dagli elementi realistici e grotteschi che vi si erano incrostati e di nuova rappresentazione, nelle traduzioni-rappresentazioni di testi classici comici, delle vicende quotidiane e cittadine della vita «quotidiana» e della sua fertilità di «casi», che si legava, come autorizzazione superiore e come offerta di vicende esemplari, ad un’interpretazione degli antichi testi comici, ammodernata per rappresentare la vita attuale cittadina nella sua realtà tutt’altro che regolare e uniforme, soggetta a leggi confermate o sconvolte dal caso.

Sicché l’Ariosto delle Commedie (cosí a lungo in quelle impegnato dai primi anni del Cinquecento – e dopo un’esperienza precoce ancora incapace di autonome realizzazioni – fino quasi alla morte), mentre si dimostra (contro l’appiattimento della sua attività teatrale solo ad una esercitazione casuale, laterale e totalmente «minore» e quasi trascurabile, come a lungo apparve alla critica, prima di studi relativamente piú recenti ai quali questo volume aggiunge una caratterizzazione ancora piú decisa, esplicita, motivata) un vero scrittore e uomo di teatro, insieme si raccorda alla vita della corte e soprattutto della Ferrara rinascimentale sia realizzando il tentativo teatrale della corte, sia personalmente dando voce alle stesse critiche rivolte al potere e alla corte dalle vivaci reazioni della città e del suo popolo.

Ma ciò facendo De Luca non accede a grezze e ben discutibili interpretazioni puramente sociologiche, che non mancarono intorno agli anni Cinquanta e che caricavano Ariosto di una totale responsabilità di «voce» delle classi subalterne ferraresi persino nel Furioso (fino a risolvere il suo poema alla luce dei problemi socioeconomici dei contadini del Delta padano), e (con giusta storica misura e sensibile attenzione alle condizioni della letteratura teatrale e alla forza d’iniziativa dello scrittore), dal capitolo iniziale (mentre nel secondo capitolo lo studio nuovo e sottile dei prologhi delle commedie permette a De Luca di recuperarli insieme come precise esplicitazioni di poetica teatrale e come parti essi stessi degli organismi e dei meccanismi delle commedie fino alla considerazione acuta della loro stessa disposizione prima in prosa e poi in endecasillabi piani o sdruccioli), trae spinta a delineare e a scandire i momenti della sua attività teatrale attraverso l’interpretazione caratterizzante delle cinque commedie e dei loro due gruppi iniziali e finali, senza mai perdere quella connotazione storico-ambientale e quell’impronta della sua poetica prima cosí finemente delineate e che il lettore potrà ben verificare anche attraverso lo studio che l’autore attua delle varie redazioni di una stessa commedia (soprattutto nel caso difficile della Cassaria nella sua qualità di primo tentativo teatrale) come momenti, diacronicamente validi, di un intero arco di sviluppo dell’attività del commediografo.

Penso che in studi successivi sull’Ariosto, che De Luca progettava anche nella prospettiva di un commento del Furioso (già da tempo commissionatogli dagli Editori Riuniti, proprio per la sua competenza ariostesca), egli avrebbe chiaramente esplicitato anche il duttile raccordo fra l’attività teatrale nella sua specificità autentica, le altre direzioni artistiche ariostesche e specie l’evolversi del grande disegno del poema. Né mancano nel presente volume spunti in tal senso e un’attenzione a quella prospettiva, implicita nella stessa considerazione che De Luca portava a certe direzioni della mia metodologia e dei miei lavori ariosteschi.

Ma (a parte altri settori dell’italianistica cui egli pensava, e su cui aveva dato prove dirette e indirette sia con un lavoro sulle lettere del Pallavicino, pubblicato nella «Rassegna della letteratura italiana», sia con le schede-recensioni nella rassegna del secondo Ottocento della stessa rivista) tali progetti ariosteschi e, ripeto, tutta la ricca attività che (una volta superata la pubblicazione di questo libro) la sua piena maturità culturale e spirituale avrebbe certamente promosso, sono stati bruscamente e tragicamente interrotti dalla morte volontaria (a 35 anni), sulle cui precise motivazioni ancora, angosciati, ci interroghiamo, mentre ci assilla il tormento di non averlo saputo adeguatamente aiutare, di non aver compreso a tempo il meccanismo di autodistruzione che lo ha condotto a quel gesto, e la sua subitanea scomparsa non ci lascia in pace, sicché, malgrado il tempo che ormai ce ne separa, non riusciamo a superare il trauma profondo che essa ha provocato in noi. Parlo anzitutto della sua coraggiosa e intelligente compagna (che pur egli sentiva, secondo le sue parole a me dette pochi giorni prima della morte, come la persona che aveva avuto ed aveva la maggiore importanza nella sua vita) e dei suoi genitori e dei suoi familiari, ma anche di tutti noi, suoi compagni di lavoro nell’Istituto di Filologia Moderna della Facoltà di Lettere di Roma, nella rivista «La Rassegna della letteratura italiana», di tutti noi che avevamo per lui un affetto profondo e una vera stima per la sua finezza di studioso, per la sua vastità di cultura, per la sua stessa posizione etico-politica che, nel largo cerchio della sinistra, a lui ci accomunava e in cui egli portava la sua sostanziale fermezza, e la vibrazione inquieta della sua acuta sensibilità e del suo tormento problematico, vivendo dolorosamente una situazione storica deludente e la stessa pena per gli infiniti uomini sacrificatisi nella lunga storia della sinistra italiana e mondiale.

Ne amavamo e ammiravamo la riservatezza, la gentilezza, la capacità di intuire i nostri stessi problemi personali e il valore di ogni minimo atto che meritasse davvero attenzione, la lealtà e il disinteresse, e lo stesso incontro, nel suo sorriso, di ironia e malinconia che pur rivelava il suo senso piú profondo del «male di vivere» in se stesso e negli altri.

Nei giorni passati con lui in settembre (subito prima del rientro a Roma e della sua morte), a Recanati, a un convegno leopardiano (che egli aveva seguito con acuto interesse, e meditazione su di un poeta anche da lui tanto amato), le sue qualità personali mi avevano ancor piú colpito ed attratto in una consuetudine quotidiana e affettuosa in cui avevo ancor meglio apprezzato la sua inconfondibile intelligenza e la sua capacità di simpatia umana che egli provava e provocava negli altri: giovani o meno giovani o anziani (come chi scrive queste parole e la mia compagna) già conosciuti o incontrati per la prima volta in quel congresso.

Ma, purtroppo, l’amore, l’affetto e la stima che egli sapeva meritarsi non sono bastati a colmare quei traumi profondi che non siamo riusciti a intendere interamente e a cui forse nessun aiuto, per quanto vicino ed assiduo, poteva essere sufficiente.

Sicché a noi resta solo l’impegno di renderlo presente e partecipe al nostro meglio, ai nostri migliori pensieri, affetti ed azioni, di intrecciare il suo ricordo amaro e stimolante allo sviluppo di quelle nostre qualità umane a cui egli ha offerto tanti esempi e tutto il succo piú autentico della sua personalità.

Che poi la nostra cura della pubblicazione postuma di questo suo libro (in cui egli aveva consegnato tanto della sua intelligenza e della sua profonda ammirazione per l’Ariosto, fra esperienza amara della realtà cosí com’è e volontà di un’aggiunta di sentimenti nobili e gentili) sia parte di quell’impegno e di quel ricordo, ciò non significa affatto che esso costituisca per noi un adempimento finale con cui lasciamo il nostro animo in calma e riposo di fronte al nostro dolore incolmabile per una perdita cosí grave che ci ha segnato tutti e per sempre.

1° gennaio 1981